Ridurre le emissioni di CO₂ nella produzione di materiali edili sfruttando risorse locali: è la la sfida affrontata dall’Università di Udine e da Alpacem Cementi Italia all'interno del progetto europeo Sitar. La ricerca, parte del programma Interregionbale Italia-Austria, studia come rendere più sostenibile la filiera del cemento e del calcestruzzo cin l'utilizzo di sottoprodotti come la pietra piasentina e la lolla di riso.
La pietra piasentina, roccia tipica del Friuli Venezia Giulia, è una delle protagoniste della sperimentazione: gli scarti di lavorazione, che rappresentano oltre il 50% del materiale estratto, sono risultati idonei alla sostituzione parziale del calcare nel cemento. Con un contenuto di carbonato di calcio superiore al 95%, questi scarti permettono di mantenere le prestazioni strutturali riducendo le emissioni.
Parallelamente, i ricercatori hanno testato l'impiego della cenere di lolla di riso, residuo della combustione del rivestimento esterno del chicco. Portata a 600°C, la cenere assume caratteristiche simili ai fumi di silice, con una percentuale di silice attiva superiore al 90%. I test condotti hanno mostrato che i calcestruzzi realizzati con questa componente non solo rispettano ma superano le prestazioni richieste nel lungo periodo.
Il progetto vede coinvolto il Dipartimento Politecnico di Ingegneria e Architettura dell’Università di Udine, coordinato dalla professoressa Giuliana Somma, e il Laboratorio Qualità di Alpacem diretto da Elvis Rosset. Entrambi sottolineano l'importanza di integrare innovazione, sostenibilità e valorizzazione del territorio per ridurre concretamente l’impatto ambientale del settore.
La sperimentazione rientra nel progetto Sitar, sostenuto da sette partner italiani e austriaci e cofinanziato con oltre 875.000 euro dalla Commissione Europea. L’iniziativa ha lo scopo di trasferire al comparto edile tecnologie a basso impatto ambientale e promuovere l’adozione di pratiche costruttive allineate al Green Deal.
Nicola Mamo
Innovazione & Ricerca
Sabato 22 marzo si celebra la Giornata Mondiale dell’Acqua, occasione per riflettere sull’utilizzo responsabile di una risorsa limitata e preziosa. Pe questa occasione Epson ha presentato i risultati di una ricerca condotta in otto Paesi europei, tra cui l’Italia, che evidenzia l’elevato consumo idrico associato ai nostri guardaroba, un tema spesso sottovalutato.
Secondo la ricerca, l’Italia si posiziona al secondo posto in Europa per impronta idrica, con ben 723.744 litri d’acqua necessari per produrre mediamente i capi posseduti da ciascun italiano, preceduta solo dal Portogallo (817.131 litri) e seguita dalla Polonia (715.266 litri). Questi numeri si riferiscono alla quantità di acqua utilizzata per produrre, rifinire, tingere e stampare i vestiti presenti nei nostri armadi. Ad esempio, per realizzare un singolo paio di jeans servono circa 18.000 litri d’acqua, per un maglione ne occorrono 14.000, mentre oltre 3.300 litri sono necessari per la tintura di una giacca.
Dallo studio emerge anche che gli italiani possiedono mediamente più capi rispetto agli altri europei, con punte di 8 pantaloni a persona, più di 5 pantaloncini e quasi 6 abiti. Dati che mettono in luce la necessità di ripensare i processi produttivi e le abitudini di consumo per ridurre questo impatto ambientale.
Una possibile soluzione arriva proprio dall’innovazione tecnologica. Epson propone infatti la tecnologia di stampa digitale tessile Monna Lisa, capace di abbattere fino al 97% il consumo d’acqua nella fase di stampa rispetto ai metodi tradizionali. Grazie agli inchiostri a pigmenti e alla stampa on-demand, è possibile limitare non solo il consumo idrico ma anche gli sprechi legati all’invenduto.
Un’ulteriore innovazione introdotta da Epson è la Dry Fibre Technology, un sistema che permette la rifibratura a secco di tessuti e carta, eliminando completamente l’uso dell’acqua nel processo e rendendo concretamente circolare il ciclo produttivo nel settore della moda.
Nicola Mamo
Innovazione & Ricerca
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