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Green Retail  - Coalvi, la Tutela della Razza Piemontese è sinonimo di sostenibilità
Giorgio Marega, direttore Consorzio Coalvi
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Persone & Imprese A cura di: Michele Pacillo

Coalvi, la Tutela della Razza Piemontese è sinonimo di sostenibilità

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- consorzio Coalvi - sostenibilità - razza piemontese - sistemi di controllo - etichettatura volontaria

Attivo da quarant’anni, primo organismo in Italia ad aver messo a punto un disciplinare di etichettatura volontaria sviluppato esclusivamente per la Razza bovina Piemontese (Fassone), il Consorzio Coalvi può vantare uno dei sistemi di controllo e garanzia di origine più solido in Italia e non solo, impegnato quotidianamente a valorizzare non solo un prodotto, ma tutto un mondo ad esso intimamente collegato. Con una particolare vocazione a consuetudini e tradizioni che rispecchiano le migliori pratiche di sostenibilità. Ne abbiamo parlato con Giorgio Marega, direttore del Consorzio Coalvi (intervista a cura di Armando Brescia).

Coalvi ha ottenuto il marchio di qualità per la commercializzazione delle vostre carni bovine sin dal 1988. Cosa ha a che fare questo con la sostenibilità?

L’argomento sostenibilità fa parte da sempre della nostra cultura e delle nostre tradizioni. Un tema connaturato al nostro lavoro e al nostro territorio e che da qualche tempo anche per noi è diventato primario, semplicemente perché ci siamo resi conto di quanto sia importante raccontare ciò che facciamo e come lo facciamo.

Siete cambiati voi o i consumatori?

Ci siamo resi conto che molti consumatori cominciano a prestare più attenzione alle istanze della sostenibilità rispetto persino a quelle relative alla salute connesse alle caratteristiche dell’alimento.

E’ quindi solo una questione di comunicazione?

La comunicazione è fondamentale. In passato ci siamo già trovati di fronte a situazioni in cui vi abbiamo dovuto fare un significativo ricorso. Per esempio, quando l’Organizzazione Mondiale della Sanità disse che la carne bovina più lavorata e trasformata poteva generare delle malattie di tipo cancerogeno, in particolare al colon. In quel caso coinvolgemmo una decina di medici specialisti, dal cardiologo al nutrizionista, al medico dello sport, per dare una risposta organica alle dichiarazioni dell’Oms che facessero chiarezza su eventuali interpretazioni errate da parte dei media, come l’aver confuso il rischio relativo di contrarre patologie oncologiche con il rischio assoluto o senza precisare che le ricerche dell’Oms erano state fatte probabilmente su carni americane e australiane, che sono molto più grasse delle nostre.

E oggi, invece?

La nostra attenzione, parallelamente a quella dei consumatori, soprattutto i più giovani, si è spostata sui temi della sostenibilità. I riflessi di questo per noi si sono tradotti in una grande opportunità perché le caratteristiche dei nostri allevamenti e dei metodi di produzione erano solo da raccontare.

Ci faccia qualche esempio concreto.

Basti dire che la consistenza media dei nostri allevamenti è di 35 capi per comprendere che stiamo parlando di allevamenti di tipo familiare. Ma abbiamo fatto molto di più, andando a misurare nello specifico l’impatto ambientale dei nostri allevamenti.

Che cosa ne è emerso?

Intanto va precisato che nella nostra indagine abbiamo preso in considerazione tutti gli aspetti, non solo quelli relativi ai gas clima-alteranti, ma anche gli impatti a livello sociale ed economico. Delle 1.135 aziende che abbiamo analizzato per fare questo studio solo 3 sono società di capitale, tutte le altre sono piccole imprese a conduzione familiare, con uno stretto collegamento con il territorio. Abbiamo dovuto imparare a raccontare la nostra realtà, semplicemente raccontando la verità, senza inventarci niente. Quello che ci amareggiava, infatti, era l’immagine di avvelenatori del pianeta, quando in fondo non è così. Allora ci siamo messi a fare i conti a partire dall’analisi del fascicolo aziendale di tutti i nostri allevamenti, attraverso la consultazione del registro che riporta via via tutti i controlli annuali che il consorzio Coalvi effettua ogni anno sui propri associati, con tutte le particelle catastali di tutti i soci e che tipo di coltura c’è sopra. In collaborazione con il Dipartimento di Agraria e di Economia e Commercio dell’Università dell’Insubria abbiamo fatto il calcolo esatto delle immissioni di CO2 nell’ambiente, che in effetti ci sono, da parte degli animali, ma calcolando anche quelle che sono le sottrazioni di anidride carbonica, così come l’impatto di altri gas clima-alteranti, come il protossido d’azoto, per esempio, che vale 260 volte la CO2, o il metano, pari a una trentina di volte il potere inquinante dell’anidride carbonica. Ebbene, il saldo tra queste varie produzioni evidenzia che noi sottraiamo dall’atmosfera 550mila tonnellate di CO2 all’anno.

Sembrano valori importanti

Per intenderci, ogni bovino che viene allevato nei nostri allevamenti sottrae dall’atmosfera il corrispondente di quanto producono quattro automobili in un anno alla percorrenza media secondo le tabelle Aci. Noi alleviamo 123mila bovini all’anno: fatevi voi due conti. Ma abbiamo analizzato anche un altro elemento sotto accusa come l’acqua. Si dice che occorrano 15mila litri di acqua per fare un kg di carne. In realtà quello è un dato a livello mondiale. A livello italiano siamo intorno ai 10.500 litri.

E’ sempre una grande quantità

E’ vero. Va ricordato però che nel nostro caso l’87% di questi litri è costituito da acqua piovana…Insomma, la produzione di carni piemontesi del nostro consorzio è di fatto molto sostenibile perché strettamente collegata alla terra e al territorio. Inoltre, vi è una questione organolettica da non trascurare, essendo la nostra carne la più magra che esista in assoluto, almeno in Europa, e al tempo stesso la più tenera. Il segreto di queste caratteristiche, che apparentemente sembrano in contraddizione tra loro, sta nella scarsa presenza di tessuto connettivo.

La comunicazione però non è tutto.

La funzione primaria del consorzio è la valorizzazione del prodotto, e a questo ci arriviamo attraverso le attività di tracciamento e di certificazione, oltre a quelle di informazione e marketing. Noi utilizziamo il marchio storico Coalvi per indicare dove si commercializzano queste carni o si utilizzano a livello di ristorazione. E questo lo garantiamo grazie a uno specifico sistema di rintracciabilità elettronico. In diversi casi i dettaglianti hanno persino bilance certificate attraverso le quali noi dalla sede sappiamo quanta carne è stata fornita e quanta via via ne viene “scaricata” grazie alla vendita. Quando la carne è terminata la bilancia non emette più lo scontrino che indica la rintracciabilità del prodotto.

Quali sono i mercati a cui vi rivolgete?

La nostra attività si concentra prevalentemente sul mercato italiano, anche perché l’Italia è un forte importatore di carni bovine. Da un anno a questa parte però stiamo guardando con sempre maggiore interesse anche ai mercati esteri e all’horeca. Abbiamo partecipato a tal proposito a diverse fiere specializzare nel food e nella ristorazione, Cibus e Host tra tutte. Ma anche oltre confine: a Parigi, Lione, Dusseldorf…Abbiamo già creato una rete di distributori a Londra, dove la ristorazione è di alto livello, ma anche in Svizzera e in Francia. E’ una filiera molto corta quella che cerchiamo di mantenere. Puntiamo su una rete di eccellenza di 280 macellerie del dettaglio tradizionale, a cui si aggiungono una cinquantina di spacci diretti dall’allevatore al consumatore. Per quanto riguarda la Gdo, da oltre 12 anni abbiamo deciso di contenere il rapporto con questo canale, con l’unica eccezione del Gruppo Finiper e di Realco, importante realtà dell’organizzazione Dit, che ci hanno seguiti sin dal primo giorno in cui abbiamo applicato l’etichettatura volontaria.

 

       
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