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Green Retail  - Quando la carne pesa sulle città (e la dieta mediterranea può alleggerire il carico)
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Human&Green Retail Forum 2025 A cura di: Domenico Canzoniero

Quando la carne pesa sulle città (e la dieta mediterranea può alleggerire il carico)

Una recentissima ricerca su Nature rivela l'enorme "carbon hoofprint" urbano. Ma la soluzione non è nell'astinenza, bensì nel ritorno a un equilibrio che gli italiani conoscono bene.


Una ricerca pubblicata su Nature Climate Change il 20 ottobre ha quantificato per la prima volta con precisione millimetrica quello che chiamano il "carbon hoofprint": l'impronta di carbonio del consumo di carne nelle città americane (hoof è lo zoccolo che sostituisce l’umano piede della carbon foot print). I numeri sono impressionanti: 329 milioni di tonnellate di CO₂ equivalente all'anno, pari alle emissioni totali del Regno Unito. Ma ciò che colpisce di più non è la dimensione assoluta del fenomeno, quanto la sua variabilità.

Due città americane con consumi di carne sostanzialmente identici possono avere impronte di carbonio che differiscono di un fattore tre. Il motivo? Non dipende solo da quanto si mangia, ma soprattutto da cosa si sceglie. Il manzo genera il 73% delle emissioni totali, mentre pollo e maiale pesano molto meno sul clima. La geografia della produzione e l'intensità delle emissioni della filiera amplificano ulteriormente queste differenze.

La ricerca statunitense offre indicazioni preziose anche per l'Italia, dove il tema delle proteine animali nella dieta è al centro di un dibattito spesso polarizzato. Da un lato c'è chi invoca l'astinenza totale dalla carne, dall'altro chi difende strenuamente il diritto a mangiare come si è sempre fatto. Ma esiste una terza via, quella che per secoli ha caratterizzato l'alimentazione mediterranea: non eliminare, ma equilibrare.

Le categorie fanno la differenza

Lo studio americano conferma con rigore scientifico ciò che la saggezza alimentare mediterranea ha sempre saputo: la categoria di alimento che scegliamo ha un impatto enormemente superiore a qualsiasi altro fattore. Non serve ossessionarsi su chilometri zero o packaging se poi riempiamo il carrello di bistecche. Una scelta consapevole tra manzo, pollo e legumi vale più di mille claim ambientali sul packaging.

Questa evidenza suggerisce che la soluzione non sta nell'eliminare le proteine animali, ma nel fare scelte più intelligenti tra categorie diverse. Ed è esattamente qui che la dieta mediterranea, patrimonio UNESCO dal 2010, offre un framework operativo collaudato da millenni. Non un regime punitivo, ma un modello di equilibrio dove le proteine animali ci sono – pesce, carni bianche, latticini tradizionali – ma in proporzioni bilanciate con cereali, legumi e verdure.

Il ruolo chiave del retail nella gestione della domanda

La ricerca di Nature identifica quattro strategie di riduzione delle emissioni. La più efficace? Dimezzare gli sprechi alimentari (riduzione del 16%) e sostituire parte del manzo con pollo (28-33%). Combinando queste azioni con una modesta riduzione del consumo totale di carne – il "meatless Monday" tanto caro agli americani – si arriva a un taglio del 51% delle emissioni.

Ma per trasformare questi numeri in realtà serve un attore che gli studiosi americani non menzionano esplicitamente: il retail. La distribuzione alimentare ha un potere enorme nella gestione della domanda. Non attraverso imposizioni o moralismi, ma facilitando scelte migliori, rendendo visibile ciò che è invisibile (l'impatto ambientale e nutrizionale delle diverse categorie), valorizzando le eccellenze produttive, guidando verso opzioni più equilibrate.

Come diceva Mauro Lusetti, presidente di Conad, in un’intervista di qualche mese fa: "Nessuno che faccia seriamente il mestiere del distributore, del trasformatore o dell’agricoltore può ignorare la costante ricerca di salubrità da parte dei consumatori". È una consapevolezza che sta emergendo nei quartier generali della distribuzione italiana e che trova nella dieta mediterranea lo strumento perfetto per tradursi in azione.

Un algoritmo mediterraneo work in progress

Il progetto Human&Green Retail Experience, che abbiamo condiviso con gli stakeholder il 14 ottobre all’omonimo forum, propone esattamente questo: trasformare i principi della dieta mediterranea in un sistema operativo per il largo consumo. Non una soluzione preconfezionata, ma un percorso da costruire insieme agli stakeholder della filiera.

L'architettura è trasparente: ogni categoria merceologica riceve un punteggio base su una scala 0-100, calcolato integrando tre dimensioni scientifiche. Quanto quella categoria si avvicina ai principi della Dieta Mediterranea UNESCO (i cereali integrali partono da 75-85 punti, i legumi da 80-85, le carni rosse da 25-35). Quale livello di trasformazione industriale subisce secondo il sistema NOVA, lo standard internazionale riconosciuto da OMS e FAO. Qual è il suo impatto ambientale secondo i Life Cycle Assessment del Joint Research Centre europeo.

Su questo punteggio base di categoria – che è il fattore determinante, come dimostra anche la ricerca di Nature – si possono poi aggiungere attributi specifici che valorizzano ulteriormente i prodotti virtuosi: biologico, filiera corta, certificazioni di qualità, stagionalità. Ma sono elementi aggiuntivi. Il cuore del sistema è il punteggio di categoria, perché è lì che si gioca la partita vera.

Come sottolinea Enrico Giovannini, coordinatore scientifico del progetto: "La riforma costituzionale del 2022 ha posto salute e ambiente come limiti all'attività economica. Il retail, attraverso cui passa la maggior parte delle scelte alimentari, si trova al centro di questa responsabilità. Ma servono strumenti operativi, non solo principi astratti."

Dal dialogo alla definizione degli standard

L'algoritmo è deliberatamente concepito come work in progress. I punteggi base delle categorie sono fondati su dati scientifici consolidati, ma la loro calibrazione finale e soprattutto la definizione degli attributi specifici richiede il confronto con chi produce, trasforma e distribuisce il cibo ogni giorno.

Come valutiamo un pomodoro San Marzano DOP rispetto a uno generico? Quale peso dare alla stagionalità? Come riconoscere metodi di conservazione tradizionali che fanno parte del patrimonio culturale ma possono comportare maggior contenuto di sale? Non sono domande a cui si risponde chiusi in un laboratorio, ma attraverso workshop e tavoli di lavoro con l'industria, il mondo agricolo, i nutrizionisti e i retailer.

Perché questa è l'opportunità vera: costruire un linguaggio comune che permetta al meglio della produzione italiana di emergere, che dia valore alla qualità senza penalizzare la tradizione, che orienti verso scelte più sane senza imporre una visione rigida.

Dall'astinenza all'intelligenza alimentare

La ricerca americana dimostra che ridurre l'impatto della carne non richiede necessariamente diete vegane o vegetariane. Richiede intelligenza nelle scelte tra categorie: meno manzo e più pollo, meno sprechi, maggiore spazio a legumi e cereali integrali. In altre parole, richiede esattamente ciò che la dieta mediterranea ha sempre fatto: bilanciare proteine animali e vegetali secondo principi che rispettano insieme salute umana, cultura alimentare e sostenibilità ambientale.

Per l'Italia questo significa valorizzare un patrimonio che già possediamo. I dati scientifici lo confermano: l'adozione della dieta mediterranea potrebbe prevenire tra 15.000 e 30.000 morti ogni anno nel nostro Paese, generare risparmi di 741 euro pro capite e ridurre significativamente l'impronta carbonica dei consumi. E contrariamente alla percezione comune, costa meno della dieta italiana media attuale.

Il retail può diventare l'infrastruttura che facilita questa transizione. Non con divieti o tasse sulle bistecche, ma rendendo visibile il valore nutrizionale e ambientale delle diverse categorie di prodotto, premiando chi fa scelte più equilibrate, guidando dolcemente le persone verso un carrello che rispecchi la saggezza mediterranea.

Perché, come dimostra la ricerca di Nature, cambiare le categorie di alimenti che mettiamo nel piatto può avere un impatto sul pianeta superiore a quello di cambiare la nostra auto o il modo in cui riscaldiamo casa. La differenza? Modificare la dieta costa meno, è più rapido da implementare e – se fatto nel modo giusto – può anche migliorare la qualità della vita invece di peggiorarla.

       
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