La valutazione di impatto intergenerazionale è diventata legge in Italia nel 2024, traducendo in norma operativa la riforma costituzionale degli articoli 9 e 41 del 2022. Per la prima volta nella storia repubblicana, ogni nuova legge dovrà essere accompagnata da una valutazione delle sue conseguenze sulle generazioni future. Ma cosa significa cominciare ad assumersi una "responsabilità intergenerazionale" per il retail quando si influenzano le scelte quotidiane di milioni di persone? E quale ruolo può giocare il sistema della distribuzione alimentare nell’aiutare le persone a scegliere meglio cosa mangiare in un’ottica intergenerazionale?
Ne abbiamo parlato con Benedetta Cosmi, giornalista, scrittrice, corsivista del Corriere della Sera, coordinatrice del laboratorio sul Capitale Umano di Eurispes. Una conversazione che parte dalla norma per esplorare dinamiche più profonde: come si è spostata l'identità degli italiani dal lavoro al consumo, perché la "libertà di scelta" in un mercato saturo di claim è spesso un'illusione, quale responsabilità hanno le strutture – anche quelle commerciali – nel costruire architetture di senso per chi verrà dopo di noi.
Domenico Canzoniero: Partiamo da un fatto normativo recente e cruciale: la valutazione di impatto intergenerazionale è diventata legge, in applicazione della riforma degli articoli 9 e 41 della Costituzione. È il tentativo di dare concretezza a quella definizione storica della Commissione Brundtland: garantire a chi verrà dopo le stesse opportunità di oggi. Nel nostro lavoro al Forum Human&Green Retail, abbiamo iniziato a chiederci: quale ruolo può giocare la distribuzione alimentare in questo quadro? Dopotutto, il retail è dove passano le scelte quotidiane di milioni di persone. Ma al di là della norma, come si traduce questo nella realtà sociale?
Benedetta Cosmi: È un cambio di paradigma necessario perché è cambiata la nostra consapevolezza della scarsità e della durata. In passato, con una vita media più breve, l'impatto individuale sembrava limitato. Oggi, grazie al benessere, viviamo molto più a lungo e questo significa che "logoriamo" il mondo per più tempo, convivendo con più generazioni contemporaneamente. Prima era scontato che il futuro fosse dei bambini; oggi i bambini sono diventati rari come i panda. Questa legge è una sorta di educazione forzata alla politica per guardare oltre il breve termine, ma chiama in causa anche l'elettore. Spesso il cittadino chiede alla politica "tutto e subito" (bonus, condoni), non rendendosi conto che soddisfare quel capriccio immediato significa rubare risorse (ambientali o previdenziali) ai propri figli o nipoti.
D.C.: In questo scenario complesso, tu dirigi il laboratorio Eurispes sul Capitale Umano. Come definisci oggi il "Capitale Umano" in Italia, specialmente in relazione al lavoro e ai consumi?
B.C.: Il Capitale Umano non è un'astrazione, è la "qualità" degli abitanti: i loro valori, la formazione, come investono il tempo. C'è stata una grande trasformazione: un tempo il lavoratore traeva la sua identità e felicità dal ruolo in azienda, dalla carriera, dal permettere l'ascensore sociale ai figli. Oggi quel mondo si è frammentato. C'è una crisi di identità forte: il nostro capitale umano è fragile, con risultati scolastici preoccupanti (penso ai test OCSE-PISA) e scarsa educazione finanziaria, al contrario di modelli come quello cinese che puntano tutto su matematica e finanza. Di conseguenza, la ricerca del piacere e dell'identità si è spostata dal lavoro ai consumi. Il welfare non è più solo aziendale, ma diventa il "mangiar bene", il viaggio, l'esperienza.
D.C.: Questo spostamento sul consumo porta con sé nuove dinamiche. Nel marketing vediamo l'ascesa di profili come i "flexitariani", mossi più dalla salute personale che dall'etica. Ma spesso queste scelte, pur guidate da buone intenzioni, creano paradossi.
B.C.: Esatto. In assenza di grandi riferimenti ideologici o religiosi, che un tempo dettavano anche le regole alimentari (la Quaresima, il venerdì di magro), oggi ci affidiamo ai "guru" del momento. Si creano nuove tribù: i macrobiotici, i salutisti. Il paradosso è che per aderire a un valore percepito – "mangio sano e sostenibile" – finiamo per creare danni enormi. L'esempio classico è il consumo smodato di avocado e salmone: diventano i simboli di uno stile di vita "sano", ma la domanda eccessiva devasta gli ecosistemi e crea filiere insostenibili.
D.C.: È qui che vediamo il nodo centrale. La "libertà di scelta" del consumatore, in un sistema così complesso, è spesso un'illusione. I dati dell'Osservatorio Immagino ci dicono che l'84% della spesa ha un claim "green", eppure l'impatto ambientale e sulla salute non migliora. La mia tesi è che la Grande Distribuzione debba assumersi una responsabilità sistemica: agire sull'architettura della scelta. Non possiamo aspettare che il consumatore diventi onnisciente in quei pochi minuti che passa davanti allo scaffale. Il progetto Human&Green Retail Experience che stiamo sviluppando parte proprio da qui: come può il retail fare nudging positivo, preselezionando e valorizzando ciò che ha un impatto positivo intergenerazionale? Ti sembra un approccio troppo paternalistico?
B.C.: Al contrario, è necessario. Se non ti poni il problema di "spingere" verso il bene, finirai per spingere casualmente o verso il male. Ho scritto di recente un corsivo proprio su questo: in Lombardia la Regione ha finanziato moltissimi corsi per tatuatori. Senza porsi il problema, ha creato una "spinta" che ha generato un eccesso di offerta in quel settore, con tutte le incognite anche sanitarie (es. inchiostri e controllo dei nei) sul lungo periodo. In Italia abbiamo paura di "educare" o indirizzare perché temiamo di limitare la libertà. Ma abbandonare il cittadino alla sua ignoranza o alla complessità del mercato non è dargli libertà, è abbandonarlo al deserto. Serve il coraggio di dire: "Questo è l'indirizzo giusto", basandosi sulla ricerca. A volte serve anche quello che chiamo "inquinamento buono" parafrasando il “debito buono” di Draghi: investire risorse (e quindi impattare) oggi nella ricerca, per trovare la tecnologia che ci salverà domani, invece di fingere di essere green oggi senza cambiare nulla di sostanziale.
D.C.: Questo ci porta al concetto di durabilità. Nel nostro sistema di valutazione cerchiamo di premiare non solo l'impatto ambientale immediato, ma anche la qualità che dura nel tempo, i prodotti che rappresentano un investimento per la salute a lungo termine. Citavo prima il caso Patagonia: il fondatore ha capito che il purpose non basta se il prodotto non dura. La vera sostenibilità è la qualità che attraversa il tempo.
B.C.: La durabilità è la chiave, e non riguarda solo le merci, ma anche le idee e le strutture sociali. La valutazione di impatto generazionale significa anche non distruggere il caple culturale che abbiamo ereditato.
Penso a realtà storiche come il Circolo Filologico Milanese o il Rotary. Spesso la mia generazione o quelle successive le snobbano perché "non vanno più di moda" o sembrano elitarie. Ma se interrompiamo questa catena, se smantelliamo questi luoghi di aggregazione e formazione della classe dirigente, cosa lasciamo ai nostri figli? Un mondo arido, senza strutture.
E poi ci lamentiamo che non si sa più dove si forma la classe dirigente. Forse non si sa più perché abbiamo smantellato quelle architetture.
Il '68 ha voluto distruggere molte cose - e per alcune aveva anche senso. Ma loro potevano permettersi di chiedere "più libertà" perché comunque intorno avevano un contesto pieno di riferimenti.
Oggi invece diamo ai nostri figli un mondo dove quelle architetture non ci sono più, ma in compenso hanno il digitale che li bombarda 24 ore su 24 con spinte al consumo sempre più sofisticate, algoritmi che plasmano i loro desideri, influencer che vendono stili di vita. E chiamiamo tutto questo "libertà di scelta". Ma è davvero libertà quando sei solo in un deserto di stimoli commerciali, senza bussole culturali, senza strutture che ti aiutino a distinguere il bene dal male?
D.C.: E sarebbe anche un deserto senza acqua perché gliela stiamo consumando... È per questo che un sistema alimentare, una distribuzione organizzata consapevole del suo impatto intergenerazionale non può non aiutare le persone a mangiare meglio e impattare meno sul pianeta.
Grazie Benedetta, a presto rivederci.
B.C.: Grazie Domenico, è stato un piacere.