Un’occupazione stabile, inclusiva, e orientata al futuro: sono queste le direttrici emerse dalla seconda edizione dell’Osservatorio Diversity, Equity & Inclusion nella Distribuzione Moderna, promosso da Federdistribuzione in collaborazione con ALTIS – Alta Scuola Impresa e Società dell’Università Cattolica.
Un’iniziativa che, in un contesto di fragilità demografica e crescente multiculturalità, assume un peso non solo etico ma sistemico, per l’intero settore del largo consumo.
A inaugurare i lavori è stato Carlo Alberto Buttarelli, presidente di Federdistribuzione, che ha delineato i contorni di un comparto cruciale per l’economia italiana: oltre 450 mila collaboratori, di cui l’86% a tempo indeterminato, e una significativa componente femminile (61%). Numeri che raccontano la rilevanza sociale della distribuzione moderna, oggi chiamata ad affrontare una trasformazione culturale profonda: “promuovere modelli di lavoro più inclusivi non è più una scelta opzionale, ma una leva strategica”.
Governance e consapevolezza: l’inclusione diventa struttura
I risultati presentati da Chiara Arrighini, ricercatrice di ALTIS e curatrice del rapporto, evidenziano una maturazione concreta nell’approccio delle imprese al tema della diversità. Cresce il numero delle aziende che hanno istituito un comitato manageriale dedicato all’inclusione (dal 20% al 37%) e aumenta in modo rilevante la percentuale di quelle che allocano budget specifici per iniziative D&I, passate in un anno dal 33,3% al 70,4%.
Non si tratta più, dunque, di singole buone pratiche, ma di una strutturazione sistematica: oltre l’80% delle aziende intervistate ha adottato procedure per garantire equità nei percorsi di carriera e l’85,2% ha attivato canali di ascolto permanenti. Un ulteriore segnale arriva dall’investimento nella formazione sul linguaggio inclusivo, cresciuto significativamente nell’ultimo anno: “le parole sono parte dell’identità aziendale – ha sottolineato Arrighini – e riflettono, più di quanto si creda, il livello di accoglienza reale dei luoghi di lavoro”.
Le barriere dell’integrazione: lingua, cultura, burocrazia
Il cuore del report 2025 è però dedicato a un tema di frontiera: l’inclusione dei lavoratori con cittadinanza non italiana. A partire da 12 interviste a dipendenti stranieri e 6 HR manager, sono emerse tre barriere principali: linguistiche, culturali e amministrative. Le difficoltà nella comprensione dell’italiano – anche nelle sue sfumature informali – si traducono spesso in isolamento relazionale e professionale. A ciò si aggiungono le incomprensioni generate da norme sociali non codificate e una burocrazia percepita come opaca e intimidatoria.
Molti lavoratori, ha spiegato la ricercatrice, “si ritrovano relegati in mansioni operative, a basso contatto con il pubblico, senza possibilità di valorizzare competenze pregresse o titoli di studio acquisiti all’estero”. E il frequente ricorso a contratti flessibili o part-time involontari non sempre offre garanzie di stabilità o crescita professionale.
Tra le proposte emerse formazione linguistica mirata (anche sul linguaggio tecnico del retail), affiancamento graduale, supporto alla gestione documentale, piattaforme informative multilingue. Alcune aziende già prevedono mensa inclusiva, flessibilità per festività religiose, spazi per la preghiera e programmi di mentorship interna.
Il punto di vista dei sindacati: non basta assumere, serve valorizzare
Il confronto si è arricchito con la voce delle rappresentanze sindacali, chiamate a commentare i dati. Sono intervenuti Marco Beretta (Segretario nazionale FILCAMS CGIL), Diego Lorenzi (FISASCAT CISL) e Gennaro Strazzullo (UILTuCS). I tre sindacalisti hanno espresso apprezzamento per l’impegno crescente delle aziende, ma anche preoccupazione per le zone grigie ancora presenti.
Beretta ha posto l’accento sul rischio di una “inclusione debole”, in cui la flessibilità si traduce in precarietà. “Nel settore della distribuzione – ha affermato – conciliare la vita privata con i turni 7 giorni su 7 è spesso impossibile, soprattutto per le lavoratrici. Il part-time involontario, in particolare, è una piaga che incide anche sul futuro previdenziale”.
Strazzullo ha sottolineato come l’inclusione non possa ridursi a un’azione comunicativa o di responsabilità sociale: “va misurata sulla reale valorizzazione della persona all’interno dell’organizzazione, a partire dalla stabilità contrattuale e dalla crescita professionale”.
Una regia pubblica per la migrazione legale
Tra le testimonianze più significative, quella di Giovanni Di Dio, referente di Sviluppo Lavoro Italia, agenzia del Ministero del Lavoro. Di Dio ha presentato un progetto pilota di migrazione regolare e selettiva, fondato sull’articolo 23 del Testo Unico sull’immigrazione. Il modello prevede la selezione di candidati nei Paesi d’origine, la formazione linguistica e tecnica pre-partenza e l’accompagnamento all’ingresso in Italia. Tunisia e India sono i primi due Paesi coinvolti, ma il progetto è destinato ad ampliarsi.
Secondo i dati raccolti da Sviluppo Lavoro Italia, gli stranieri impiegati nella distribuzione moderna superano le 230 mila unità. “Un fenomeno strutturale – ha spiegato Di Dio – che va gestito con strumenti capaci di coniugare esigenze aziendali, dignità del lavoro e stabilità sociale”.
Il programma, a finanziamento pubblico, offre alle imprese assistenza gratuita per l’intero processo di inserimento. Alle aziende si chiede solo una “disponibilità concreta e una visione di lungo periodo”.