Il sesto Report di Sostenibilità di Settore della Distribuzione Moderna dipinge un quadro rassicurante: governance ESG strutturate, efficienza energetica diffusa, impegno anti-spreco capillare. Il 94% delle aziende associate dichiara di essere già allineato ai requisiti CSRD. Numeri impressionanti, metodologia rigorosa, best practices documentate. Eppure, scavando oltre la superficie, emerge una contraddizione che mette in discussione l'intera narrazione.
L'elefante nella stanza si chiama materialità. La Corporate Sustainability Reporting Directive non è un semplice esercizio di rendicontazione: è uno strumento progettato per costringere le aziende a confrontarsi con i loro impatti più significativi attraverso l'analisi di doppia materialità. E qui casca l'asino.
Per la distribuzione moderna, due impatti dominano tutti gli altri per rilevanza sistemica: l'impatto nutrizionale sulla salute pubblica e le emissioni Scope 3 dell'intera filiera produttiva. Il primo riguarda il ruolo della grande distribuzione nell'epidemia di obesità, diabete e malattie croniche che attraversa l'Occidente. Il secondo rappresenta il 95% dell'impronta carbonica del settore, concentrata a monte nella produzione agricola, negli allevamenti intensivi, nei trasporti globali.
Quanto emerge dal report su questi due aspetti? Praticamente nulla.
Sull'impatto nutrizionale, il silenzio è assordante. Zero strategie per limitare la promozione di ultra-processati, zero obiettivi di miglioramento del profilo nutrizionale degli assortimenti, zero impegni contro l'obesità infantile. Le rare eccezioni si contano sulle dita di una mano: Penny con 12 referenze sviluppate con AIRC (un progetto lungimirante che ha avuto anche altri sviluppi), Esselunga che riduce il sale in alcune ricette. Briciole, in un mercato che vale 26 miliardi di euro solo per la Marca del Distributore.
Sullo Scope 3, i numeri parlano chiaro: solo il 47% traccia queste emissioni, appena il 29% ha definito obiettivi quantitativi. Significa che il settore gestisce attivamente solo il 5% dei propri impatti climatici, lasciando nel limbo il restante 95%. È come se un'azienda petrolifera si concentrasse esclusivamente sull'efficienza energetica degli uffici, ignorando l’estrazione, la raffinazione e il consumo di idrocarburi.
La matematica non torna. Se il 94% delle aziende fosse veramente pronto alla CSRD, questi due macro-impatti dovrebbero essere al centro delle strategie di sostenibilità. Invece, il settore eccelle su tutto ciò che è laterale: efficienza energetica dei punti vendita (88% attivo), packaging secondario (94% con strategie), redistribuzione eccedenze (100% delle aziende food). Tutte iniziative meritorie, ma che rappresentano una frazione dell'impatto complessivo.
Siamo di fronte a una forma sofisticata di sustainability washing?
Perfetta competenza procedurale - grazie ad Altis e ai suoi esperti che hanno curato il report- ma compliance sostanziale insufficiente per carenza di dati e di iniziative. Per quando siano bravi gli estensori del report non possono sopperire a carenze strutturali e di visione. Il settore ha imparato a parlare fluentemente il linguaggio ESG senza dover affrontare le questioni che metterebbero in discussione i modelli di business consolidati, magari migliorando anche le redditività e le criticità strutturali come già abbiamo evidenziato in diverse occasioni.
La distinzione tra GDO e retail specializzato evidenzia queste carenze. Infatti, mentre i primi evitano sistematicamente i propri impatti più rilevanti, il retail non-food mostra maggiore coraggio: OVS con la trasparenza "Eco Valore" su ogni prodotto, IKEA con l'economia circolare integrata, Leroy Merlin con strategie di riparazione vs. sostituzione. Non perfetti, ma almeno disposti a confrontarsi con i propri impatti diretti.
Il rischio è concreto. Quando arriveranno i primi audit CSRD, molte aziende potrebbero scoprire che la loro "preparazione" non regge a un'analisi di materialità rigorosa. Non basta avere la governance, i sistemi di raccolta dati e le competenze procedurali. La CSRD richiede di identificare e gestire gli impatti che contano davvero, non quelli che fa comodo misurare.
Il paradosso è evidente: un settore che ha professionalizzato l'arte di "essere sostenibile" evitando sistematicamente le responsabilità più scomode ma invece asserisce di essere “in anticipo sui tempi”.
La distribuzione moderna italiana si presenta come campione di sostenibilità, non solo nel report di Federdistribuzione ma in ogni appuntamento, vedi Marca 2025, mentre continua a promuovere junk food all'altezza dei bambini e a importare prodotti da filiere che non controlla né conosce.
Forse è arrivato il momento di smetterla con i numeri consolatori e iniziare a fare domande scomode. La vera sostenibilità non si misura dalla perfezione dei report, ma dal coraggio di affrontare gli impatti che fanno davvero la differenza.
Tutto il resto è solo una forma più sofisticata di greenwashing.