Green Retail  - Più umanità ma con metodo
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Human&Green Retail Forum 2025 A cura di: Domenico Canzoniero

Più umanità ma con metodo

Durante il Covid abbiamo capito tutti quanto è importante la distribuzione del cibo. Ma non credo che sia venuto in mente a nessuno che impedire la distribuzione di cibo potesse diventare un'arma di guerra. Eppure è quello che sta succedendo a Gaza.

Di precedenti purtroppo ce ne sono diversi e infatti nel 2018 le Nazioni Unite hanno adottato una risoluzione, la 2417, che vieta di usare la fame come strumento di guerra e impone agli stati di proteggere le strutture che producono e distribuiscono il cibo. Perché anche le guerre hanno le loro regole e denunciare e perseguire i crimini di guerra che quasi sempre sono crimini contro l’umanità, rappresenta l’ultimo baluardo contro la barbarie. 

L’umanità come categoria valoriale è direttamente implicata nell’accesso al cibo e per questo i supermercati non possono far finta di niente di fronte a un massacro attuato anche attraverso l’interruzione degli aiuti umanitari. Perché il loro lavoro, garantire l'accesso al cibo, è legato ai diritti umani più di quanto sinora abbiamo pensato.

Il problema di voler fare la cosa giusta

Quando una cosa ti indigna, la prima reazione è fare subito qualcosa, qualunque cosa. È umano. Il guaio è che spesso questo "qualcosa" è sbagliato, o fatto male, o dura poco.

Per esempio: togli alcuni prodotti dagli scaffali, ma non si capisce bene perché proprio e solo quelli. Oppure fai una dichiarazione, ma senza spiegare come sei arrivato a quella conclusione. Oppure prendi una posizione forte, ma poi non riesci a mantenerla perché costa troppo o perché ti attaccano da tutte le parti.

Il risultato è che spesso fai più danni che altro. E la prossima volta che succede qualcosa, tutti si ricorderanno che l'ultima volta è andata male, e così non fai più niente.
Quindi la prima conclusione provvisoria è che: sì, la distribuzione deve fare qualcosa di fronte al genocidio palestinese perché è tenuta ad agire secondo umanità. Ma per fare la cosa giusta serve un metodo che dia voce non tanto alle emozioni del momento ma soprattutto a quella umanità che fa parte dei valori in gioco nell’attività distributiva.

Quando fare soldi diventa complicità

Oltre all’indignazione e all’umanità c'è un'altra ragione per cui è importante trovare un metodo che funzioni quando si vuole reagire a una certa situazione ingiusta o eticamente inaccettabile: distinguersi, prendere le distanze da chi invece con la guerra e le morti ci lavora e ci guadagna.
Francesca Albanese, che è la persona incaricata dall'ONU di studiare quello che succede nei territori palestinesi, ha scritto un rapporto che si chiama "From economy of occupation to economy of genocide". Spiega come più di 1.000 aziende occidentali guadagnano soldi da questa guerra.

«Questo genocidio non è stato evitato, né è stato fermato, perché è redditizio. C'è gente che sta facendo soldi a costo del genocidio. Un sacco di soldi», ha scritto Albanese.

Aziende che fanno computer, che producono armi, che trasportano merci. Tutte collegate alla macchina della guerra. Il budget israeliano per la difesa è cresciuto del 65% in un anno, arrivando a 46 miliardi di dollari. Qualcuno quei soldi li sta incassando.

Per aver scritto queste cose, gli Stati Uniti l’hanno sanzionata e trattata come i peggiori criminali al mondo.
Consentitemi un inciso a riguardo. Non so se avete colto l’indecenza di questo pur marginale passaggio della vicenda: con un grottesco gesto intimidatorio lo stato più potente al mondo si scaglia contro una singola persona, cittadina italiana, incaricata dalla massima organizzazione internazionale di fare luce sul rispetto del diritto internazionale, perché ha osato puntare il dito contro le aziende che stanno alimentando con i loro prodotti e servizi la spirale di violenza in Palestina. Incredibile. E soprattutto inquietante per tutti coloro che vogliono difendere il diritto internazionale e che non so se come lei, con il suo coraggio e dedizione, continueranno a fare il loro lavoro. Del resto è questo lo scopo dei regimi autoritari: intimidire, silenziare, sottomettere. 

Ma torniamo a noi e alla necessità di darsi un metodo per fare la cosa giusta nei momenti più difficili.
Infatti, anche l'Europa aveva capito che non si può più far finta di niente di fronte all’aggressione dei diritti umani che avviene lungo le filiere produttive. E che sapere e non fare niente è molto vicino all’essere complici. Nel 2024 aveva infatti approvato una direttiva (si chiama CSDDD) che diceva alle grandi aziende: se nella tua filiera succedono cose brutte, non si rispettano i diritti, è colpa tua. E se non fai niente per evitarle, ti multiamo. Peccato che poi ne abbia rinviato l’applicazione al 2028, perché anche l'Unione Europea non riesce più a fare la cosa giusta. Ha smesso di seguire il metodo che si era data e adesso non sa più come muoversi.

 

Il paziente metodo inglese

C’è una cooperativa inglese, Co-op UK, che pare abbia risolto questo problema. Non è che siano più bravi degli altri, è che hanno capito una cosa semplice: se vuoi fare la cosa giusta devi farla con metodo.

Cosa hanno fatto? Prima di tutto si sono messi al lavoro con pazienza e avviato un processo che dura da almeno 14 mesi durante i quali hanno messo insieme una lista di 17 paesi dove succedono cose terribili e contro i diritti umani, comprovate e riconosciute dall'ONU e da altri organismi internazionali. Non una lista fatta da loro, basata su quello che pensano o su quello che gli sembra giusto. Una lista di paesi e fatti verificati da gente che non c'entra niente con i supermercati.

In questa lista ci sono Russia, Siria, Belarus, Afghanistan, Myanmar, Sudan, Iran, Israele, Mali e altri ancora. Analizzando il caso per ognuno di questi paesi, hanno deciso di non vendere più circa 100 prodotti. Non tutti i prodotti, non a caso, ma quelli che hanno un senso per interrompere o mitigare le violazioni dei diritti umani e quindi portare giovamento alle persone che soffrono.

La parte più intelligente

La parte più intelligente non è nemmeno questa. È come l'hanno raccontata.

Non hanno detto: "Noi abbiamo deciso che...". Hanno detto: "I nostri soci ci hanno chiesto di...". La differenza è enorme.

Perché se dici "noi abbiamo deciso", sembri un'azienda che fa politica per fare pubblicità. Se dici "i nostri soci ci hanno chiesto", stai solo facendo quello che ti chiedono le persone che ti danno i soldi per esistere.

E infatti i soci glielo avevano chiesto davvero, attraverso sondaggi e assemblee. Tutto documentato, tutto trasparente secondo un processo che è andato avanti per molto tempo.

Il trucco per non fare danni

L'altra cosa intelligente che hanno fatto è stata dire subito: "Questa decisione probabilmente non ci costerà molto, economicamente parlando".

Può sembrare cinico, ma in realtà è il contrario. È onesto. Perché se una cosa ti costa troppo, dopo un po' smetti di farla. E se smetti di farla, era meglio non iniziarla proprio. Vedi il caso dell’EU e delle sue incertezze sulla sostenibilità negli ultimi mesi.

Invece se dici dall'inizio: "Possiamo permettercelo, e vi spieghiamo quanto ci costa", allora tutti sanno che quella cosa la farai davvero, e per sempre. O almeno fino a che, come dice Co-op UK, non comporterà un serio rischio per la sostenibilità economica dell’azienda.

Perché funziona questo metodo

Questo metodo funziona perché risolve tre problemi che di solito rovinano tutto:

Il problema dell'improvvisazione: Se usi solo criteri che vengono dall'ONU, nessuno può dire che stai inventando scuse o che stai facendo politica. Stai solo applicando quello che dice la comunità internazionale.

Il problema della legittimità: Se sono i tuoi soci che te lo chiedono, non stai imponendo le tue idee a nessuno. Stai facendo quello che ti viene chiesto di fare.

Il problema della sostenibilità: Se dici dall'inizio quanto ti costa e che te lo puoi permettere, nessuno può accusarti di fare promesse che non puoi mantenere.

Una lezione per tutti

Questa storia dovrebbe interessare tutti quelli che gestiscono supermercati, non solo per la tragedia di Gaza, ma per tutte le situazioni in cui ci viene voglia di fare la cosa giusta.

Perché di situazioni così ce ne sono tante. Il cioccolato fatto con il lavoro dei bambini, i vestiti cuciti da gente che lavora in condizioni terribili, l'olio di palma che distrugge le foreste. Ma anche nella distribuzione stessa: le condizioni di lavoro delle persone nei punti vendita e nei centri logistici, la contrattazione con la piccola e media industria e con le filiere agroalimentari. Ogni volta che compri qualcosa, da qualche parte nel mondo qualcuno ne paga il prezzo.

Il punto non è se devi fare qualcosa o no. Il punto è come lo fai.

Infatti la lezione di tutto questo è semplice: se vuoi fare la cosa giusta, non basta volerlo. Devi anche saperlo fare.

Devi usare criteri che non hai inventato tu. Devi avere il consenso di chi ti sta intorno (e quindi non devi avere in casa situazioni di sfruttamento, prevaricazione, illegittimità). Devi essere trasparente sui costi. E devi farlo con continuità, non solo quando ti va.

Non è facile, ma è possibile. La cooperativa inglese lo ha dimostrato. E probabilmente tra qualche anno, quando qualcuno studierà come si fa l'attivismo aziendale senza fare danni, userà il loro esempio.

La sfida per il settore distributivo è ora quella di sviluppare standard condivisi per dare risposte alle questioni umanitarie più rilevanti per il largo consumo: criteri scientifici, processi democratici, comunicazione trasparente. Perché se i valori sono universali, anche i metodi per applicarli dovrebbero esserlo.