Roberta Iovino, ricercatrice della Scuola Superiore Sant'Anna, in questa intervista ci spiega come architettura della scelta e nudge possono guidare i consumatori verso diete più equilibrate. Senza rinunciare al gusto.
INTRODUZIONE
Il retail ha un'influenza determinante sulle scelte alimentari degli italiani: il 90% di ciò che mangiamo passa dalla grande distribuzione e oltre due terzi delle decisioni d'acquisto avvengono davanti allo scaffale. In questo contesto, emerge una domanda cruciale: come può il punto vendita facilitare la transizione verso diete più equilibrate, in linea con i principi della dieta mediterranea?
Roberta Iovino, ricercatrice della Scuola Superiore Sant'Anna di Pisa, studia da anni il comportamento dei consumatori nel campo dell'alimentazione sostenibile. Il suo gruppo di ricerca ha condotto indagini su oltre 2.000 consumatori italiani e sperimentato diverse strategie di nudging per orientare le scelte verso opzioni a minor impatto ambientale.
I risultati dimostrano che informazione mirata, architettura della scelta e trasparenza possono spostare in modo significativo le preferenze dei consumatori. Non si tratta di imporre scelte, ma di facilitare decisioni più consapevoli. La distribuzione, in questo scenario, può giocare un ruolo chiave nella costruzione di un sistema alimentare più sostenibile e salutare.
IL QUADRO DELLA SITUAZIONE
Identità dietetiche e barriere al cambiamento
Professoressa Iovino, partiamo da una fotografia del presente. Come si distribuiscono oggi le identità dietetiche degli italiani?
Roberta Iovino: «Attraverso un'indagine rappresentativa su 2.000 consumatori italiani, condotta nel febbraio 2025 nell'ambito del progetto Grins finanziato dal Pnrr, abbiamo mappato le diverse identità dietetiche. I dati mostrano che vegani, vegetariani e pescetariani rappresentano circa il 7% della popolazione — con solo l'1% vegano. C'è poi un 25% che si definisce "riduzionista": consuma carne ma cerca attivamente di ridurla. La maggioranza, il 60%, si considera onnivora, mentre il 9% si dichiara tendenzialmente carnivoro.
Quello che emerge è che esiste già un quarto della popolazione consapevole e motivato a ridurre il consumo di proteine animali. È un segmento significativo su cui il retail può lavorare per facilitare questa transizione».
Quali sono le motivazioni principali che spingono alla riduzione del consumo di carne?
«Le motivazioni variano a seconda del profilo. Chi è vegetariano o vegano è mosso principalmente da ragioni etiche legate al benessere animale. I riduzionisti, invece, sono più sensibili alla questione ambientale. Un dato interessante è che la preoccupazione per la salute, pur essendo presente, non è il driver principale in Italia — probabilmente perché la carne fa parte della tradizione mediterranea e delle ricette culturali.
Questo ci dice che, quando comunichiamo al consumatore, dobbiamo prioritariamente evidenziare gli impatti ambientali e il benessere animale, senza trascurare gli aspetti salutistici che vanno comunque inclusi nel messaggio complessivo».
Ha parlato di "barriera edonistica". Cosa intende?
«Le nostre analisi statistiche mostrano che la principale barriera alla riduzione del consumo di carne tra gli italiani è proprio l'edonismo. Il consumatore italiano è fortemente orientato al gusto e al piacere del palato. Fatica a rinunciare alla carne perché è un alimento che ama gustare.
Questo significa che qualsiasi strategia di riduzione deve necessariamente garantire che le alternative vegetali siano gustose, appetibili, piacevoli. Non possiamo chiedere alle persone di sacrificare il piacere del cibo. Dobbiamo dimostrare che una dieta più vegetale può essere altrettanto soddisfacente dal punto di vista sensoriale».
IL RUOLO DELLA DISTRIBUZIONE
Architettura della scelta e strategie concrete
Veniamo al cuore della questione: quale ruolo può giocare la distribuzione in questa transizione?
«La distribuzione ha un'influenza enorme e spesso sottovalutata. Può intervenire su diversi livelli: l'architettura dello spazio, la visibilità dei prodotti, le promozioni, l'informazione a scaffale, le degustazioni. Ogni elemento del punto vendita è un'opportunità per orientare le scelte.
Il primo passo è avere piena consapevolezza degli impatti ambientali dei diversi prodotti. Il retail dovrebbe conoscere quali alimenti sono più favorevoli dal punto di vista ambientale e sanitario, e quali invece hanno impatti significativi. Questa conoscenza permette di decidere a quali prodotti dare maggiore visibilità, quali promuovere, quali accompagnare con informazioni aggiuntive».
Ha parlato di "architettura dello spazio". Può fare esempi concreti?
«Una strategia che abbiamo discusso nei nostri focus group con consumatori è particolarmente interessante: posizionare i prodotti vegetali che sostituiscono la carne direttamente accanto alla carne tradizionale, non in reparti separati.
Perché questo è importante? Perché il consumatore carnivoro o onnivoro, quando va al reparto carne, può vedere immediatamente le alternative. Può confrontare, può essere incuriosito, può decidere di provare. Se i prodotti vegetali stanno in un reparto separato, chi non è già orientato verso quel tipo di alimentazione semplicemente non ci passa mai. E l'opportunità di sperimentare viene meno».
Quindi mescolamento piuttosto che separazione?
«Esattamente. L'idea è facilitare la scoperta, abbassare le barriere all'esplorazione. Ovviamente va fatto con intelligenza: non si tratta di confondere il consumatore, ma di ampliare le sue opzioni nel momento della decisione. Una sorta di "nudge architettonico": non imponi nulla, ma rendi più visibile e accessibile l'alternativa».
Oltre al posizionamento, quali altre leve può usare il retail?
«Le promozioni e gli sconti sui prodotti vegetali sono fondamentali. Sappiamo che il prezzo resta un fattore decisivo per molti consumatori. Rendere più accessibili economicamente le alternative vegetali può abbattere una barriera importante.
Poi ci sono le degustazioni: permettere di assaggiare un prodotto nuovo riduce il rischio percepito dal consumatore. "È davvero buono?" è la domanda che molti si pongono. Farglielo provare direttamente nel punto vendita risolve il dubbio.
Infine, la comunicazione a scaffale: etichette chiare, informazioni sull'impatto ambientale, messaggi sul benessere animale. Ma attenzione: deve essere una comunicazione trasparente e verificabile, non green claim generici».
L'ESPERIMENTO DEL NUDGING
Risultati della ricerca sui messaggi che funzionano
Il vostro gruppo ha condotto un esperimento interessante sul nudging nei menu dei ristoranti. Può raccontarci i risultati?
«Abbiamo sottoposto circa 2.000 persone a uno scenario sperimentale: immaginare di essere in un ristorante e dover scegliere tra uno spezzatino di carne e uno vegetale, entrambi preparati con maestria dallo chef. Abbiamo testato diversi tipi di messaggio per vedere quali fossero più efficaci nello spostare le preferenze.
Nello scenario di controllo, senza alcun nudge, il 71% sceglieva la carne e il 29% l'opzione vegetale. Già questo 29% è interessante: è più del 7% di vegetariani e vegani dichiarati, segno che c'è curiosità e apertura verso alternative vegetali».
E quando avete introdotto i nudge?
«Abbiamo testato singoli messaggi su salute, impatto ambientale, benessere animale, norme sociali. I risultati più significativi sono arrivati dal nudge ambientale: mostrare concretamente l'impatto in CO2 del piatto ha spostato l'8% in più verso l'opzione vegetale.
Ma il risultato più interessante è quello dello scenario cumulativo: quando abbiamo fornito tutte le informazioni insieme — impatto ambientale, benefici per la salute, benessere animale — lo spostamento è stato del 12%. Praticamente coloro che hanno preferito l'alternativa vegetale sono saliti al 41% ».
Perché lo scenario cumulativo funziona meglio?
«C'è un concetto in psicologia del consumatore chiamato "moral disengagement": il disimpegno morale. Anche quando il consumatore sa che una scelta sarebbe migliore per la società o l'ambiente, in certi contesti "spegne l'interruttore" e compie comunque un comportamento dannoso.
Come lo giustifica? Dicendo a sé stesso: "La mia singola scelta non fa la differenza", oppure "Sì, ma la carne è meglio per i miei muscoli", o ancora "Il danno non è poi così grave". Se gli diamo solo un'informazione — per esempio sul benessere animale — può spostare l'attenzione su un altro aspetto per giustificare la scelta della carne.
Ma se lo circondiamo di informazioni che coprono tutti gli aspetti — ambiente, salute, etica — diventa molto più difficile razionalizzare la scelta meno sostenibile. Per questo il messaggio integrato funziona meglio».
Questo vale anche per il supermercato?
«Il principio è valido, ma va adattato al contesto. In un menu ristorante hai più spazio e attenzione del consumatore. Davanti allo scaffale serve sintesi estrema: le persone decidono in pochi secondi.
L'ideale sarebbe un sistema di iconografie chiare e immediate — magari con una legenda ben visibile nel reparto — che comunichi impatto ambientale, valore nutrizionale, benessere animale a colpo d'occhio. Il consumatore deve poter comparare facilmente e velocemente. Troppa informazione verbale rischia di essere controproducente: l'information overload distrae e può paralizzare la scelta».
PROTEINE ANIMALI A MINOR IMPATTO
Orientare verso pollo e maiale per chi non vuole eliminare la carne
Non tutti sono pronti a eliminare completamente le proteine animali. Ha senso orientare almeno verso le opzioni a minor impatto come pollo e maiale?
«Assolutamente. Questo è un approccio pragmatico e graduale. La carne bovina ha un impatto di circa 36 kg di CO2 per chilo — o 25 kg se biologica. La carne di maiale scende a circa 10 kg, quella di pollo a circa 5 kg. Sono comunque impatti significativi rispetto all'1 kg di CO2 dei legumi, ma rappresentano comunque una riduzione importante.
Per il consumatore che non è pronto a passare a un'alimentazione prevalentemente vegetale, orientarlo verso carni a minor impatto è già un passo avanti. È la logica del miglioramento progressivo».
Come comunicare questa gerarchia di impatti?
«Qui il retail può essere molto efficace. Attraverso etichette a scaffale, sistemi di scoring ambientale, o anche semplici indicatori visivi che rendano immediatamente percepibile la differenza di impatto tra le diverse carni.
L'importante è che l'informazione sia basata su dati scientifici solidi — studi di Life Cycle Assessment peer-reviewed — e non su claim generici. Il consumatore deve poter fidarsi dell'informazione che riceve. La trasparenza è fondamentale».
C'è anche il tema del benessere animale. Un consumatore potrebbe scegliere il pollo per l'impatto climatico ma ignorare le condizioni di allevamento intensivo...
«Esatto, ed è per questo che serve informazione integrata. Il pollo ha un impatto climatico inferiore, ma spesso proviene da allevamenti intensivi con forti criticità sul benessere animale. Il consumatore ha diritto di saperlo.
Per chi vuole continuare a consumare proteine animali, la scelta migliore è ridurre le quantità e preferire prodotti biologici o da allevamenti che garantiscono migliori standard di benessere. Il biologico, nei nostri studi, mostra una riduzione del 30% circa delle emissioni rispetto all'intensivo, ma ha anche vantaggi su altre categorie di impatto: acidificazione, eutrofizzazione, biodiversità.
Ovviamente il biologico ha rese inferiori, quindi va di pari passo con una riduzione complessiva dei consumi. Non possiamo produrre le quantità attuali con il solo biologico. Ma questa è proprio la direzione giusta: meno e meglio».
COMUNICAZIONE E TRASPARENZA
Claim, nuove normative, responsabilità condivisa
Ha citato la necessità di evitare claim generici. Sta arrivando una nuova normativa europea...
«Sì, la direttiva Empowering Consumer entra in vigore a fine settembre 2026 e introduce divieti molto più stringenti. Non si potranno più fare claim ambientali generici tipo "prodotto green" o "eco-friendly" senza specificare a cosa ci si riferisce. Non si potrà più comunicare che un prodotto è "carbon neutral" solo perché si sono acquistati crediti di carbonio per compensare.
Servono dati verificabili, comunicazioni precise, trasparenza reale. Questo vale per tutti gli attori della filiera, ma il retail ha una responsabilità particolare perché è il punto di contatto con il consumatore finale».
Il retail dovrebbe controllare i claim dei fornitori?
«La responsabilità legale resta del produttore che mette il claim sul packaging. Ma una collaborazione tra distribuzione e fornitori ci sta ed è auspicabile. Il retail può e dovrebbe segnalare comunicazioni ingannevoli, chiedere modifiche, favorire chi comunica in modo trasparente.
E questo vale non solo per i claim ambientali, ma anche per le rappresentazioni che possono essere fuorvianti. Per esempio: pubblicizzare carne da allevamenti intensivi con immagini di animali felici nei prati è una comunicazione ingannevole. Non è coerente con la realtà della filiera. Attrae magari l'attenzione dei bambini, delle famiglie, ma maschera completamente la sofferenza che c'è dietro e l'impatto ambientale reale».
Sta suggerendo di limitare questo tipo di comunicazione?
«È una mia visione personale, ma credo che andremmo in quella direzione. In passato era permessa la pubblicità di sigarette e alcolici senza limitazioni. Oggi è vietata o fortemente regolamentata perché si è riconosciuto il problema di salute pubblica.
Ecco, io penso che in futuro si dovrebbe limitare quanto più possibile la promozione pubblicitaria di prodotti a base di carne da allevamenti intensivi, soprattutto quando viene fatta con messaggi che mascherano l'impatto reale. È un controsenso dire che dobbiamo tendere verso diete più vegetali e poi continuare a bombardare le persone con pubblicità che mostrano la famiglia felice che consuma salumi, dove l'animale è totalmente assente, il prodotto è visto come un oggetto inanimato.
L'impatto ambientale e l'impatto sull'animale come essere senziente sono completamente mascherati. Questo tipo di pubblicità, secondo me, andrebbe ripensata profondamente».
STRATEGIE CONCRETE PER IL RETAIL
Decalogo operativo per la distribuzione
Proviamo a sintetizzare. Se dovesse dare indicazioni operative a un direttore di supermercato, quali sarebbero le priorità?
«Innanzitutto: mappare gli impatti. Avere piena consapevolezza di quali prodotti venduti hanno impatti ambientali e sanitari maggiori o minori. Questo è il prerequisito per qualsiasi strategia.
Secondo: ripensare l'architettura dello spazio. Dare maggiore visibilità ai prodotti più virtuosi, posizionare le alternative vegetali proteiche vicino alle carni, non segregarle in reparti specialistici.
Terzo: politiche promozionali mirate. Sconti e offerte sui prodotti vegetali, sui legumi, sulle proteine alternative. Rendere economicamente accessibile la scelta sostenibile.
Quarto: degustazioni e sampling. Permettere di assaggiare prodotti nuovi, soprattutto le alternative vegetali che possono avere barriere percettive legate al gusto.
Quinto: informazione a scaffale chiara e integrata. Non solo prezzo, ma anche impatto ambientale, valore nutrizionale, benessere animale. Con iconografie immediate, non testi lunghi.
Sesto: collaborare con i fornitori per migliorare la qualità della comunicazione sui packaging, eliminando claim generici o ingannevoli e favorendo trasparenza.
Settimo: non promuovere attivamente prodotti ad alto impatto con messaggi che ne nascondono le criticità. Il retail ha una responsabilità educativa verso il consumatore».
Tutto questo ha un costo per il retail. Come si giustifica l'investimento?
«Il punto è che non stiamo parlando solo di responsabilità sociale o ambientale. Stiamo parlando di anticipare tendenze di mercato. Quel 25% di riduzionisti è in crescita. Le normative europee si stanno facendo più stringenti. I consumatori, soprattutto le generazioni più giovani, sono sempre più attenti.
Chi si posiziona ora come facilitatore di scelte sostenibili acquisisce un vantaggio competitivo. Costruisce fiducia, differenziazione, allineamento con le aspettative emergenti. Non è solo etica, è anche strategia di business lungimirante.
E poi c'è un aspetto spesso sottovalutato: il retail può diventare parte della soluzione a problemi collettivi — cambiamento climatico, crisi sanitaria legata all'alimentazione. Questo gli dà un ruolo sociale riconosciuto, una legittimazione che va oltre la semplice funzione distributiva».
CONCLUSIONI
Le parole di Roberta Iovino disegnano un percorso possibile: il retail non come passivo intermediario, ma come architetto di scelte più consapevoli. Le evidenze scientifiche ci sono, gli strumenti pure. Manca forse ancora la piena consapevolezza del ruolo che la distribuzione può giocare.
La dieta mediterranea, con il suo equilibrio tra proteine vegetali e animali, offre una bussola già validata da tradizione, scienza e Unesco. Non serve inventare nulla: serve facilitare l'accesso a quel modello, renderlo visibile, attraente, economicamente accessibile. Perché la transizione proteica non è un obbligo calato dall'alto: è un'opportunità di ripensare il proprio ruolo nella società. E di costruirsi un vantaggio competitivo duraturo.