Sessantamila delegati a Belém per discutere la seconda priorità climatica dopo i fossili: trasformare il sistema alimentare. L'industria sceglie l'efficienza produttiva, ma il retail ha un potere diverso – gestire ciò che entra nei carrelli e aiutare le persone a fare una spesa migliore.
Ogni volta che si parla di conferenze sul clima, si alza un mugugno generale di incredulità e lamento che culmina in affermazioni del tipo: “Ma è assurdo, sessantamila persone che volano in Brasile per parlare di emissioni! Ma non potevano fare una videocall?”
E lì capisci che il problema non è solo la sfiducia nell’ennesima ammucchiata diplomatica per il clima, ma l’incapacità o meglio la disabitudine a misurare.
La COP30, a Belém, riunisce 60.000 delegati da 190 Paesi. I voli generano circa 210.000 tonnellate di CO₂. Una cifra enorme, sì. Ma basta un confronto: il mondo emette 37 miliardi di tonnellate di CO₂ all’anno.
Quella conferenza rappresenta lo 0,00057% del totale. Equivalenti a cinque ore e mezza di emissioni globali.
E allora la prospettiva cambia.
Perché se quei negoziati servissero ad anticipare anche di un solo anno la fine dei combustibili fossili, risparmierebbero circa 150.000 volte le emissioni degli aerei fino a Belem.
Ecco perché misurare è la rivoluzione: perché trasforma la percezione del problema, e con essa il senso delle scelte.
Da qui, dalla misura scientifica, nasce la consapevolezza delle priorità di questa COP30: primum uscita dalle fonti fossili e accelerazione della cattura di carbonio. Secondo: trasformare il sistema alimentare da emettitore netto a deposito di carbonio. Nella parole di Johan Rockstrom le cose sono ancora più chiare:
"Anche se eliminassimo i combustibili fossili domani, non riusciremmo a rispettare l'Accordo di Parigi senza rivoluzionare il sistema alimentare".
Il motivo? Se le fonti fossili pesano il 75% dei gas serra, il cibo non pesa solo per quel restante 25% di emissioni (34% se si calcola la filiera estesa, compresi i fossili utilizzati). Il sistema alimentare è il principale responsabile della perdita di biodiversità e del degrado dei suoli. In pratica: se l'addio ai fossili serve a smettere di emettere, la trasformazione del cibo serve a continuare ad assorbire. Senza foreste sane e suoli vivi (che oggi l'agricoltura industriale distrugge), il pianeta perde la sua capacità di raffreddarsi.
La scienza ha già identificato il modello: le diete prevalentemente vegetali (come la Dieta Mediterranea patrimonio UNESCO) possono ridurre le emissioni del sistema alimentare fino al 90% entro il 2050, mantenendo e anzi migliorando la salute pubblica. Il rapporto EAT-Lancet 2025 sostiene che modificare le diete globali potrebbe ridurre le emissioni agricole del 15% ed evitare 15 milioni di morti l'anno.
Ed è su questo secondo fronte – quello della resilienza della biosfera – che l'industria e la distribuzione giocano la loro partita. Una partita che non si può vincere solo con i pannelli solari, ma con ciò che mettiamo nel piatto.
Due strategie a confronto: efficienza dell'offerta vs gestione della domanda
A differenza del petrolio, non possiamo "spegnere" il cibo. Dobbiamo trasformarlo. Ma come?
A Belém, l'industria del largo consumo (FMCG) è presente in forze. Colossi come JBS, Nestlé, PepsiCo, Unilever e Carrefour presidiano i padiglioni con una strategia che si concentra sulla gestione dell'offerta (supply-side):
- Promuovono agricoltura rigenerativa (come il progetto OURO di PepsiCo) focalizzata sul miglioramento dell'efficienza produttiva
- Propongono modifiche alle metriche del metano (GWP*) che permetterebbero di dichiarare progressi climatici mantenendo i volumi di produzione attuali
- McDonald's investe in sustainable beef per ridurre l'impatto per unità di prodotto
L'agenda corporate si concentra su soluzioni supply-side: migliorare l'efficienza mantenendo i volumi di produzione attuali.
L'evidenza scientifica indica che l'efficienza da sola non è sufficiente. Per raggiungere gli obiettivi climatici del sistema alimentare, servono soprattutto interventi demand-side che modifichino i pattern di consumo.
Questo per una semplice ragione: perché le categorie di prodotto a minore intensità carbonica sono anche quelle più sane, e spostare l’equilibrio dei consumi verso queste categorie è più efficiente di qualsiasi miglioramento dell’efficienza produttiva e decarbonizzazione oggi nota.
Si tratta quindi di fare una scelta: continuiamo ad usare il green come leva di marketing (supply-side) o vogliamo assumerci la responsabilità di ridurre le emissioni del sistema alimentare e di aiutare le persone (demand-side) a mangiare più sano?
Il retail come crocevia del cambiamento sistemico
Il retail si trova esattamente nel punto dove la responsabilità incontra il potere di incidere.
Il 70% delle decisioni si prende nei supermercati da cui passa oltre il 90% di quello che mangiamo.
E il 50% delle emissioni dei cittadini europei deriva dalle loro scelte alimentari, da ciò che mettono nei carrelli della spesa.
Il supermercato, in fondo, è un referendum quotidiano sul futuro del pianeta.
Può limitarsi a “rendere più verde” ogni categoria di prodotto, oppure scegliere di riequilibrare il sistema alimentare, trasformando l’assortimento, il prezzo, la comunicazione e la relazione con il territorio in strumenti di cura.
Human&Green Retail Experience: un laboratorio collettivo
In questo contesto nasce Human&Green Retail Experience, non come modello esclusivo ma come spazio di sperimentazione condivisa.
Un laboratorio dove la distribuzione lavora insieme a industria, ricerca, istituzioni e società civile per capire come rendere praticabile in Italia la gestione della domanda che l’IPCC e Rockström indicano da tempo come leva cruciale.
Il progetto parte da un presupposto semplice: il retail può guidare la transizione, ma solo se coinvolge l’intera filiera.
Le azioni?
- riequilibrare gli assortimenti verso prodotti mediterranei e vegetali;
- adottare metriche ambientali e nutrizionali scientifiche e verificabili;
- valorizzare economicamente le scelte a minore impatto;
- misurare non la performance del prodotto, ma la composizione complessiva del carrello medio.
È una sperimentazione di sistema, non una vetrina.
Un modo per tradurre la teoria della “gestione della domanda” in un’esperienza concreta, quotidiana e misurabile.
La Dieta Mediterranea: equilibrio tra salute e clima
La Dieta Mediterranea rappresenta, in questa prospettiva, il linguaggio comune della sostenibilità: scientificamente validata, culturalmente radicata, ambientalmente sostenibile.
Non è una bandiera identitaria, ma un modo di riequilibrare la domanda.
Meno carne e zuccheri, più legumi, frutta, verdura, cereali integrali.
Un modello che riduce le emissioni del sistema alimentare e contemporaneamente migliora la salute pubblica.
Conclusione: la misura come atto di cura
Alla fine, tutto si riduce a una scelta di campo.
Possiamo continuare a usare il “green” per differenziare prodotti, o possiamo usarlo per riequilibrare il sistema.
Possiamo misurare per comunicare, o misurare per cambiare.
Misurare gli impatti significa guardare la realtà senza abbellirla.
Significa spostare il baricentro del discorso: dal “come migliorare il mio prodotto” al “come prendersi cura del mondo a cui appartiene”.
Perché la sostenibilità non è una gara a chi è più verde, ma una forma di corresponsabilità sistemica.
E quando cominci a misurare davvero, scopri che la rivoluzione non parte dalle etichette, ma dal carrello.
E che la misura, non solo quella tecnico-scientifica ma anche quella umana ed etica celebrata dal poeta Orazio, è la più semplice e la più radicale forma di cura.